Economia USA: realtà e narrazione di Trump

Economia USA: realtà e narrazione di Trump

Un percorso in salita. E non era di certo lo scenario che il presidente statunitense Donald Trump aveva immaginato quando ha iniziato la sua battaglia per la conquista della Casa Bianca. Eppure, sotto il profilo economico, gli Stati Uniti stanno sperimentando un rallentamento che rischia di minare alle fondamenta le possibilità di una rielezione del magnate newyorkese. Impeachment o no, poco cambia. Le nubi che si stanno addensando sopra l’economia USA non sono poche. E cresce il numero di investitori che si domanda non se arriverà un ciclo di recessione, bensì quando.

“La nostra economia è la numero uno. Tutto il pianeta invidia l'America e il meglio deve ancora venire”. Con queste parole, il presidente Trump a maggio scorso rimarcava i suoi successi in ambito domestico. E i dati diramati dal Dipartimento del Commercio a fine ottobre sembrano testimoniarlo. Nel terzo trimestre del 2019, infatti, il Prodotto interno lordo (Pil) statunitense è cresciuto dell’1,9%, un decimale in meno rispetto ai tre mesi precedenti, ma tre decimali in più rispetto al consensus degli analisti, che si aspettava una crescita dell’1,6 per cento. Alla luce di ciò, sono arrivati tweet entusiastici da parte dei supporter di Trump, ma i dati raccontano altro. Ovvero, che esiste una storia di due (ma anche tre, o quattro) Americhe differenti. Quella narrata da Trump, quella raccontata dai dati e quella vissuta da milioni di americani.

Sono tre infatti i fattori che rischiano, nei prossimi 18/24 mesi, di provocare una stagnazione nell’economia americana. I dati del Dipartimento del Commercio, visti in valori assoluti, hanno battuto le previsioni. Ma, analizzando le singole voci, emerge che il risultato finale è il frutto di un incremento nelle spese per il consumo personale, +2,9% su base annua nel terzo trimestre 2019, e nella spesa governativa, +2% nello stesso orizzonte temporale. Vale a dire che sia le famiglie sia il governo federale hanno sostenuto la domanda interna di beni. Non di certo le imprese, visto che la spesa per investimenti si è contratta del 15,3% rispetto lo stesso periodo dell’anno precedente.

Non a caso Chad Moutray, capo economista della National Association of Manufacturers, ha rimarcato che “per le imprese manifatturiere, le sfide più grandi sono trovare personale qualificato e andare oltre le incertezze sul commercio internazionale, le ragioni per cui gli investimenti continuano a essere rimandati in futuro”. Ed è per questo che, sempre nel terzo trimestre, la produzione industriale è calata dello 0,3% su base tendenziale, il peggior risultato da quattro anni, secondo i dati diramati dal Dipartimento del Lavoro. L’aspettativa era una crescita prossima al punto percentuale. Ma la debolezza dell’industria americana è stata tale che gli analisti sono stati battuti.

E qui si arriva infatti al primo elemento di rischio per gli USA, il conflitto commerciale tra Washington e Beijing. Le schermaglie sono state tante, in questi ultimi tre anni, e solo ora, dopo le ritorsioni agostane della Cina, Trump ha finalmente aperto la porta a un accordo tra le due superpotenze. Eppure, come spiega Mike Swell, di Goldman Sachs Asset Management, “l'incertezza sul fronte della politica commerciale continua a rappresentare un ostacolo per gli investimenti delle aziende”. Più dubbi ci sono sulla direzione della politica economica e commerciale di Trump, più le imprese tendono a non investire. Un tema noto agli economisti della Federal Reserve, la banca centrale americana, che infatti hanno - seppur controvoglia - dovuto fare i conti con una situazione che stava diventando esplosiva.

Nei mesi scorsi si è verificato un fenomeno non così imprevedibile. Più Washington incrementava i dazi contro Beijing, soprattutto sui beni di consumo elettronici, più si sono contratte le vendite domestiche negli USA di tali prodotti. E allo stesso tempo, più Trump aumentava le tariffe nel settore agricolo, più gli agricoltori del Midwest, storica roccaforte repubblicana, soffrivano. Analogo discorso per il settore manifatturiero. Il risultato è che l’economia statunitense, già disomogenea, si è frammentata ancora di più, rallentando gli investimenti degli imprenditori.

La seconda riflessione riguarda infatti il ruolo della Fed. Dopo la maxi liquidità erogata da Ben Bernanke a seguito del crac Lehman Brothers, Janet Yellen aveva iniziato il tapering, ovvero la progressiva e graduale riduzione degli stimoli monetari, proprio con l’obiettivo di evitare la creazione di nuove bolle sui prezzi di alcune classi di asset. Il successore di Yellen, l’esperto e ben seguito banchiere centrale Jerome Powell, ha cercato di continuare sul percorso tracciato negli anni da chi lo ha preceduto. Ma nel 2019 ha dovuto fare i conti con, da un lato le ingerenze sempre più insistenti di Trump nella politica monetaria del paese e dall’altro i risvolti domestici dei dazi applicati da Washington ai beni importati dalla Cina. Morale? La Fed ha dovuto invertire la rotta dell’exit strategy e ha già tagliato tre volte il tasso d’interesse principale nel corso dell’anno.

E dopo aver soddisfatto le speranze di Trump, quali armi sono rimaste in seno alla Fed? Powell si è sempre detto molto cauto nell’introdurre nuovi stimoli, ma potrebbe essere costretto ad azioni straordinarie qualora Trump non raggiungesse un accordo con il presidente cinese Xi Jinping. In quel caso, come giustificare di fronte ai contribuenti un nuovo intervento a sostegno dell’economia domestica, i cui effetti potrebbero essere solo temporanei e non duraturi? A patirne sarebbe la credibilità della Fed, ma soprattutto quella di Trump. E le elezioni del novembre 2020 sono ancora troppo lontane per poter garantire a quest’ultimo un margine di sicurezza, considerando che nessun presidente americano è mai stato rieletto durante un ciclo economico recessivo.

Infine, il terzo elemento di rischio, Wall Street. Come spiega il caso WeWork, la cui Ipo (ovvero la quotazione sulla piazza finanziaria) è stata un fallimento, gli operatori iniziano a pensare che diverse quotazioni siano il frutto di un’euforia collettiva senza fondamentali a supporto. L’indice Dow Jones, il 20 gennaio 2016, ovvero quando Donald Trump si è insediato al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, ha chiuso a quota 15.766 punti. Al 5 novembre 2019, a un anno dalle elezioni, ha chiuso le contrattazioni a quota 27.492 punti. Non il doppio, ma quasi. E sono ormai due anni che la Fed, così come le banche statunitensi come Wells Fargo e Morgan Stanley, sta sottolineando che ci sono troppi squilibri nelle quotazioni.

In altre parole, i valori di alcuni comparti di Wall Street non rifletterebbero la reale solidità delle società quotate. Per Trump, che continua a cercare finanziatori della sua campagna per la rielezione proprio a Wall Street, non ci sono problemi. Ma con i consumi che pesano per il 70% dell’economia interna, con una Fed sempre più imbrigliata e prona ai chiari di luna della Casa Bianca, un conflitto commerciale ancora nel vivo e una Borsa che pare aver perso la luce della razionalità, non ci si può aggrappare alle supposizioni. I dati, infatti, smentiscono i proclami del presidente. E potrebbero riportare alla realtà diversi elettori da qui al prossimo 3 novembre.

 


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